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Articolo di Renato Conti
Avvocato, Professore a Contratto International Business Law – Public Procurement, Utilities, Infrastructures and Project Financing – Corporate and M&A – Commercial & EPC Contracts – Gare d’Appalto – Compliance.

I concetti primordiali antichi nati da una vita interiore tutta diversa, come ἀρχή, ὕλη, μορϕή esauriscono il contenuto di un mondo di differente struttura, mondo che ci è straniero e lontano. Ciò che, nella nostra lingua, designiamo come origine, materia, forma, traducendo dal greco quei termini, non è che una piatta rassomiglianza, un debole tentativo di penetrare in un mondo di sentimenti che in tutto quanto ha di più sottile e profondo tuttavia [ci sfugge].

  1. Spengler, Il Tramonto dell’Occidente

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Difficilmente si incontra un concetto, relativo all’antropologia, altrettanto comune e diffuso (oggi si dice: trasversale) tra tutte le civiltà e le civilizzazioni, nel tempo e nello spazio, come la magia.

A chi ne sostiene l’elaborazione concettuale – l’invenzione – come propria degli Elleni nel V Secolo a.C., si dovrebbe far osservare come tale concetto sia figlio della consueta presunzione che il mondo e la sua storia siano unicamente radicati nell’Occidente, e che tutto quanto non rientra in tale Tradizione sia indegno di nota, verosimilmente inferiore, erroneo o mal espresso.

La storia delle civiltà, invece, è una storia che non conosce limiti geografici. India e Cina hanno sviluppato pensiero teorico e scientifico migliaia di anni prima che l’Egeo si animasse delle riflessioni di Democrito e Pitagora.

Basterebbe osservare che il termine greco mageia deriva da una radice iranica, mag-, per comprendere che l’origine del concetto risale a prima e ad altrove rispetto alla Grecia antica[1].
Per non parlare dello sciamanesimo più antico, sapientemente studiato da M. Eliade[2], che rimonta la dimensione magica a 5000 anni fa[3].

Senza entrare qui nel merito delle origini e funzioni della magia stessa, sarà sufficiente ricordare lo spazio che ai magoi dedica Erodoto, nell’accostarsi a descrivere le guerre Persio-Greche.

In tale contesto i praticanti della magia si collocano in una posizione intermedia tra il potere politico e quello sacerdotale, con funzioni di custodi ed amministratori della liturgia, dei rituali.
Per tutto il tempo dell’epoca tragica, o dionisiaca (quindi dal sorgere dell’Era Antica passando per l’orfismo ed i Misteri Eleusini fino alla rivoluzione socratica ed all’avvento della ragione, la sostituzione di Dioniso con Apollo), nell’ambito cultuale antico il rito ha la funzione di rievocare gli accadimenti (inspiegabili) che testimoniano la manifestazione degli dèi, sperando di ripetere l’esperienza, il prodigio[4].

La credenza nel potere magico si fonda[1] su convincimenti condivisi e caratteristiche comuni:

  • l’inesattezza dell’osservazione (ma si sarebbe più portati a definirla la selettività della memoria), per cui si rammentano solo le occasioni in cui il rituale magico è riuscito, e non tutte quelle in cui il risultato non si è prodotto, che al più si tenta di giustificare in vario modo;
  • un concetto erroneo di causalità, che assume a regola l’osservazione post hoc, ergo propter hoc;
  • la predilezione per lo straordinario, a differenza dell’attitudine scientifica che osserva l’usuale;
  • il talento nel registrare analogie, vere o presunte, e collegare eventi fra loro; e
  • la forza della pigrizia, perché una spiegazione magico-poetica è comunque più semplice da elaborare di una scientifica, coerentemente con il καλός σχολάζειν (kalòs skolazein, il bell’oziare) che segna il paradigma dell’aristocraticità ellena.

Occorre, dunque, che la magia sia capace di spiegare, facendo leva sulle caratteristiche sopra elencate, il mondo circostante, in un ambiente che non ha alcuna legge naturale o altro principio per interpretarlo (gliene mancano del tutto le categorie).
Il mistero viene ricondotto al soprannaturale, e il culto magico-religioso serve ad influenzare ed esorcizzare la natura a nostro vantaggio, vale a dire, di imprimerle una legalità che di per sé non possiede; mentre oggi si vuole conoscere la legalità della natura, per potervisi conformare[2].[3]

Il culto magico-religioso unisce e lega, gli uomini (di uno stesso clan) fra di loro  e con la potenza, il genius loci, da cui traggono la loro forza.
La πόλις (pòlis, la città, il nucleo sociale) si regge sul σύμβολον (symbolon, il simbolo, nel senso di pegno), il “pegno” del potere divino, che va protetto ad ogni costo in cambio della protezione del numen.

E nel commercio con il mondo, la natura, gli altri uomini, anche qui la magia, il rituale, hanno uno spazio ben chiaro.

Ancora una volta, manca all’uomo antico qualunque categoria psicologica per conoscere (che significa fissare, cristallizzare, assoggettare a regole) il funzionamento delle relazioni che ha bisogno di stabilire, e deve fare ricorso ad un sistema esterno, efficace nei limiti della memoria selettiva, della tendenza a riconoscere le analogie, della causalità impropria, e che sia facile, ovvero meno impegnativo, da elaborare in rapporto a qualunque struttura scientifica deterministica, per la quale egli, va sempre ribadito, semplicemente non è attrezzato.

Il sistema delle relazioni verrà chiamato diritto, ed accompagnerà l’umanità nel suo traffico con il mondo, in tutti i sensi; e dal momento che il diritto non è una cosa, non è tangibile né percettibile attraverso i sensi – non è geometrico, in senso greco – esso apparterrà alla dimensione magica, più che a quella fisica.

Detto altrimenti, esso appartiene alla categoria del pensiero astratto, che la mente umana può elaborare attraverso la fissazione di concetti e l’attribuzione ad essi di nomi; dal potere di attribuire i nomi alle cose alla derivazione di un potere sulle cose, dominandole con la magia, il passo è brevissimo.

Si comporrà di riti e formule (cioè di liturgie), si esprimerà attraverso parole – simboli per definizione dei concetti ad esse sottesi.

Parole speciali, usate in modo e sequenza altrettanto speciali, significheranno per il mercante il contenuto dell’affare, la sua vincolatività rispetto alla controparte, il suggello magico-divino della sua validità.
Con il tempo, porterà al riconoscimento della tutela statale sui diritti nascenti dal patto così concluso.

La parola ha assunto una funzione magica, quella di creare, e dare forma, al sistema delle umane relazioni e del commercio.
Più ancora, essa ha consentito l’espressione di un sistema del tutto astratto, come quello del diritto, che gli studiosi hanno dovuto organizzare e costruire, mantenendone la coerenza, senza mai poterlo vedere, solo figurandolo a parole[4].

La parola, meglio detto la magia della parola, ha fissato i contorni delle operazioni commerciali, definendole e così rendendole conoscibili, da un lato, ed assoggettabili a regole certe e ripetibili, dall’altro.
La parola ha persino dato un nome a ciascuna di queste operazioni, per distinguerla dalle altre.

Fideiubes? Fideiubeo. Così – e solo così, con queste parole, questo gioco di domanda e risposta in questi esatti termini – così si costruiva a Roma la garanzia sui debiti di un terzo. Pronunciata la formula, si era invocata[5] la forma del negozio, il rapporto fra le parti passava da chiacchiera a contratto, il patto diveniva sacro ed inscindibile (pacta sunt servanda).
Ritroviamo questo concetto nelle grandi Civiltà Indoeuropee, da quelle Ario-Iraniche a quelle Mediterranee. In Persia ed India, Mitra e Varuna sono i garanti del rispetto dei giuramenti e dei contratti, nell’etica greca quando due uomini cingevano un patto fra loro generavano un daimon, un démone, che presiedeva il patto fino alla sua assoluzione e in caso di mancato rispetto del giuramento le Erinni intervenivano perseguitando il reo.
La parola data era sacra.

Ma anche nel mondo degli affari è crollata la Torre di Babele. Mentre nell’Era Antica (un po’ per la limitatezza delle aree geografiche in cui si commerciava, un po’ per la diffusione dell’Ecumene e della κοινή (koiné) greco-fenicia prima e dell’impero Romano poi) la formula aveva un carattere di universalità, essendo sufficienti le stesse parole, nella stessa lingua, ovunque nell’area mediterranea per ottenere esattamente gli stessi effetti, oggi la diversificazione linguistica e giuridica – forse un po’ per la perdita di credito della magia, piace pensarlo – rendono necessario un lavoro di doppia interpretazione delle parole; da una lingua all’altra, e da un sistema giuridico all’altro.

Del resto, l’interpretazione si rende necessaria persino all’interno di uno stesso sistema giuridico, nella medesima lingua – è la natura della legge, quella di essere soggetta ad interpretazione: diversamente, non si avrebbe bisogno di avvocati e giudici, basterebbe una tabella, ed una macchina potrebbe amministrare giustizia con facilità[6].

Mentre invece, per esaminare un contratto e ricostruire i diritti ed i doveri delle parti occorre, in primo luogo, comprendere – interpretare – cosa volessero dire i contraenti con le parole che hanno utilizzato ed i comportamenti che hanno tenuto, avendo riguardo al luogo in cui il contratto fu concluso come a quello di origine di ciascuno dei paciscenti, all’oggetto del contratto ed a tanto altro; e poi, dopo aver concluso questo primo esercizio, si potrà valutare quali effetti giuridici siano da ricondurre a questi significati. Una doppia interpretazione, appunto, della lingua e della legge[7].

Occorre ricondurre la realtà fenomenica e sensibile – il divenuto – al suo modello magico-iperuranio, la forma, che appartiene non più al sensibile, al geometrico, ma al divenire della storia, al tempo, all’astratto.

Serve, allora, un aiuto a chi debba cimentarsi con questo duplice esercizio di interpretazione per facilitare la comprensione delle dinamiche degli affari attraverso un percorso che insieme affronta gli aspetti della lingua che descrive l’affare, quelli del diritto che lo regola e quello della forma che lo ispira.

A chi operi direttamente, da imprenditore, operatore, consulente o traduttore, nel mondo degli affari, che è il mondo del diritto e della finanza, attraverso la prospettazione di una teoria, di un metodo e di un ausilio pratico.

Se voi ridete, io mangio – Se voi piangete, Dio m’aiuti, predicava l’artista di strada alla folla riunita a guardarne l’esibizione[8]. L’ambizione di chi scrive, allo stesso modo, è quella di essere concretamente d’aiuto a chi legge, di far almeno sorridere di sollievo – sarà segno che la missione è, almeno in parte, riuscita.

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Manca solo una notazione: la magia della parola è, insieme, incantesimo di vita e sortilegio di morte.

Ciascuno ha sperimentato, nei giochi dell’infanzia, l’emozione fantastica del «Facciamo che tu eri…» nella quale, e per la quale, grazie al potere evocativo delle parole (e con buona pace della consecutio temporum), si descriveva una situazione, un mondo, con ruoli, personaggi, sfondi del tutto immaginari, che però, grazie a quella evocazione, alle parole che li venivano descrivendo, assumevano forza vitale immediata, e – con l’abbandono proprio della fanciullezza – si è lasciato avvincere dal gioco, calare in quella situazione che era allo stesso tempo del tutto immaginaria e reale, più vera degli oggetti concreti che si usavano per dare sostanza alla storia.
Così un manico di scopa poteva diventare la lancia di un nobile cavaliere della Tavola Rotonda, un plaid gettato sulle spalle ne diveniva il mantello… e non era solo questione di credere in ciò che andava prendendo forma grazie alle parole con cui il promotore della fantasia lo descriveva, la fantasia stessa avvinceva del tutto, era divenuta reale e si brandiva effettivamente la lancia, si cavalcava la sedia come il più nobile dei destrieri, proteggendosi dalle intemperie con quella copertina fatta all’uncinetto dalla nonna.

Il gioco, però, finiva presto, pur con tutto il suo potenziale: non appena il narratore aveva esaurito la descrizione, fosse per calarsi a sua volta nel gioco, per aver dato fondo a tutte le scorte di fantasia di cui era dotato, perché la mamma chiamava a far merenda, non appena la parola smetteva di fluire, la lancia tornava ad essere un manico di scopa, il cavallo si riduceva a sedia, come la carrozza di Cenerentola ridiventa zucca allo spirare della mezzanotte.

Tutto il mondo che aveva preso vita doveva il suo magico potere, l’incanto in cui ci aveva avvinto, al fluire della parola vitale – finita questa, scomparso quello.

Allo stesso tempo, qualunque fenomeno dinamico venga catturato da una descrizione verbale, ricondotto ad espressione definita, rigida, inscatolata, perde la propria spinta vitale, cessa di divenire per essere un divenuto, esce dalla Storia per entrare a far parte della Natura: da evento, soggetto solo al tempo, alla direzione del suo svolgersi, esso si trasforma in fenomeno, suscettibile di studio e misura, appartiene all’esteso, allo spazio.

Lo stesso accade per il commercio umano, sia esso sociale o economico: sin tanto che esso si svolge, nell’incontro fra soggetti che con le loro negoziazioni fanno accadere gli eventi, esso è realtà in movimento, forza vitale che costruisce l’edificio della Storia con il proprio mattone; non appena lo si riduce per esigenze probatorie, documentali, commerciali, a testo scritto, per quanto accurata sia la trascrizione delle intese, dei motivi, dell’obiettivo, della funzione, di tutti i termini e condizioni voluti dalle parti, e quindi degli effetti che si intende associare al negotium registrato dal documento, esso diviene pietra, solido, durevole, eterno forse, immutabile.
Esso muore, per essere stato ridotto in parole.

Ciò è tanto più vero quando la magia della parola si trasforma da descrizione a regola, redigendo trattati, leggi, contratti.
Le fattispecie che vengono ad essere così disciplinate non sono più eventi, sono trasformate in fenomeni, ripetibili e soggetti allo studio scientifico, invece che a quello storico.

Per sottolineare il concetto, si pensi invece al potere della musica, il cui potere evocativo supera la barriera del tempo: non a caso fu detto che, quando l’orchestra finisce di suonare, il silenzio che segue è ancora Mozart.

La parola ha dato vita, la parola ha dato morte. Effimero e terribile, il potere sulle cose che ha la parola.

Parafrasando si direbbe: terribile est, medium iste!

 

[1] Lo analizza e spiega con dovizia di particolari F. W. Nietzsche nell’Introduzione a Il servizio divino dei greci, Adelphi, Milano 2012, pp. 13 ss.

[2] F. W. Nietzsche, ibidem, p. 19. E questo, che si tende secondo l’A. a fare oggi, è insieme la spiegazione della relegazione della magia al novero delle superstizioni e l’affermazione dello scientismo apollineo, socratico, illuminista.

[3] Il riferimento alla “legalità” deve essere inteso come soggezione a legge, quindi conoscibilità, predittibilità.

[4] Non dissimili i concetti espressi, al riguardo, da Laura Vagni, Nozioni di Diritto Privato e terminologia giuridica, in Tradurre il diritto, di S. Cavagnoli e E. Ioriatti Ferrari, CEDAM, Padova, 2009, pagg. 61 ss., sebbene qui l’A. ne faccia una questione di epistemologia, ciò che per varie ragioni, ultronee allo scopo di questo lavoro, desta perplessità, preferendosi il ricorso a categorie, piuttosto, della metafisica.

[5] In-Vocare, cioè “chiamare in causa”, richiedere la presenza. Il rituale della richiesta dell’intervento del numen.

[6] E tanto basti ai fautori dell’applicazione dell’AI all’amministrazione della Giustizia.

[7] Dalla ricostruzione del fatto alla individuazione della norma applicabile; da questa alle conseguenze della sua applicazione, ed al verdetto (issue, rule, application and conclusion, IRAC), il metodo tradizionale del procedimento giudiziale nell’ordinamento statunitense.

[8] Cit. da Così parlò Zarathustra, di F.W. Nietzsche.

[1] Si osserva, fortunatamente, che da qualche (poco) tempo si viene affermando una riconsiderazione della teoria sull’origine greca del concetto di magia, riprendendo piuttosto le specificità delle diverse civiltà come sviluppate nel tempo e nello spazio e quindi recuperando alla categoria della “magia” atteggiamenti e manifestazioni che si qualificano come tali secondo lo spirito del luogo: si vedano i contributi di Jeanne Favret-Saada, Les mots, la mort, les sorts, Gallimard, Parigi 1985, e di Stanley Jeyaraja Tambiah, Magic, science, religion, and the scope of rationality, Cambridge University Press, 1990.

[2] M. Eliade, Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Ed. Mediterranee, Roma, 1983.

[3] Coerentemente, del resto, proprio con la riconduzione del termine alla radice iranica mag- di cui s’è detto, laddove iranico riconduce a indogermanico, e dunque proprio a 5000 anni or sono, con le grandi migrazioni dell’Urvolk, cui appartenevano anche i Micenei.

[4] E-Vocare, cioè “chiamare fuori”, invitare ad uscire. Il rito dell’evocazione era proprio alle operazioni belliche di assedio di una città nemica, per invitare le divinità protettrici di tale città ad uscirne, togliendo la loro protezione, in cambio della promessa di continuarne il culto a Roma, con funzioni più solenni e ricche.

 

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